Summer camp. Il racconto del viaggio che non ti aspetti

Summer camp. Il racconto del viaggio che non ti aspetti

La formazione che non ti aspetti. La formazione che vorrei

Tre giorni intensi di scoperta, condivisione, semplicità, passione, umanità, bellezza. Organizzati dalla cooperativa San Martino

a cura di Jasmine Cusenza, educatrice

Prima tappa: La Polveriera di Reggio Emilia. Ex polveriera militare, riqualificata per fornire un sistema di servizi che creino occasioni di comunità per le persone del quartiere, ma non solo. Ospita al suo interno spazi di co-working, un bar-ristorante, un laboratorio di sartoria e serigrafia pensato per inserimenti lavorativi di persone con fragilità, un servizio diurno, uno residenziale, un distaccamento degli uffici dell’UEPE e una sala civica. Tutti servizi appartenenti a una rete di cooperative, volti a creare nuove connessioni, nuove forme di relazione sociale, di inclusione e integrazione, promuovendo la bellezza. Sintesi perfetta di questa mission è l’opera che un artista del luogo ha realizzato all’interno dello spazio civico, traducendo in immagini la sua esperienza di convivenza con chi vive quel luogo quotidianamente, dopo aver abitato per un periodo nel servizio residenziale per persone con disabilità e aver condiviso con loro e con la comunità gli spazi della Polveriera. Il diritto alla bellezza è il puntello che ogni giorno guida gli operatori della Polveriera e continua a creare connessioni uniche tra arte e comunità.

Seconda tappa: Re.Mida, centro di riciclaggio creativo. Luogo in cui viene ridata vita a materiali di scarto, provenienti da aziende locali, apprezzando così il valore intrinseco e le potenzialità di oggetti che verrebbero altrimenti considerati rifiuti. Re.Mida è spazio di incontri, laboratori per persone di tutte le età, di scambi, di visite e percorsi formativi, di sensibilizzazione e riflessione sulla sostenibilità e sul pensiero ecologico e creativo, infine è anche shop&lab, dove è possibile acquistare pezzi unici, fatti a mano, con materiali di scarto al 100%.

Al Re.Mida ci siamo potute sperimentare in un work-shop in cui ci veniva richiesto di realizzare una città tridimensionale utilizzando come unico materiale la carta, di vari formati, texture, colori e dimensioni. Lo sforzo maggiore per me è stato immaginare come riuscire a dar vita e forma a qualcosa che di per sé non ne aveva, la carta, ma che avrebbe potuto trasformarsi in qualsiasi cosa. I materiali hanno potenzialità infinite, lo sforzo è allenare la mente alla creatività per riuscire a vederle.

Da Re.Mida porto a casa questa frase: “Coltivare l’incolto, per trovare la bellezza dove non si è abituati a cercarla”.

Il secondo giorno ad accoglierci è stata la città di Forlì. Nello specifico, il Villaggio Mafalda che ospita una comunità di tipo familiare, una educativa, un centro diurno, un progetto per neo maggiorenni, un progetto mamma bambino, un salone polifunzionale e un mercatino solidale. Questi luoghi sono abitati e vissuti quotidianamente da più di 50 persone e sono luoghi di intrecci e di vite di professionisti, persone in situazioni di fragilità, ma anche di volontari, senza i quali questi progetti non sarebbero sostenibili. Chi vi trova accoglienza sono neonati, bambini, adolescenti e mamme in difficoltà con i loro figli. A volte, dopo un periodo trascorso nel villaggio, che sia in comunità educativa o in famiglia, per qualcuno arriva il momento di entrare a far parte di una famiglia adottiva, per altri, invece, il Villaggio Mafalda potrebbe essere casa fino al momento in cui saranno pronti a continuare il loro percorso di vita altrove. 

Storie come quella di Manuela, coordinatrice e mamma della comunità famiglia del villaggio, che ha scelto di dedicare se stessa a 360 gradi a questo progetto, coinvolgendo la propria famiglia per un pezzetto della sua vita, mi hanno particolarmente emozionata. Scelta coraggiosa e potente che cambierà la vita non so a tutti quei bambini e bambine che in quella casa si sentiranno a casa, ma anche a lei alla sua famiglia naturale che in qualche modo sarà allargata, più “colorata” e contaminata da intrecci di storie che per un pezzetto di vita avranno vite e storie comuni. 

Seconda tappa a Forlì: CavaRei, cooperativa sociale che si occupa di svariati progetti rivolti sia alla disabilità, attraverso servizi socio-riabilitativi diurni e residenziali, e laboratori socio-occupazionali; sia alla comunità con servizi come un centro di stampa digitale, dove lavorano e apprendono competenze professionali persone in stato di fragilità, e uno shop dov’è possibile acquistare ciò che realizzano i ragazzi della cooperativa. Ciò che sicuramente ricorderò di CavaRei è la stanza Snoezelen, ambiente progettato per produrre il benessere attraverso stimoli multisensoriali controllabili. La stanza Snoezelen nasce per persone con deficit cognitivi e difficoltà di relazione di qualsiasi età, ma è adatta anche a tutti coloro che vogliono lasciare andare lo stress della giornata. È un luogo innovativo in cui chiunque voglia rilassarsi e ritagliarsi un momento per sé può trovare, accompagnato da un operatore, la dimensione sensoriale che più gli si addice e si confà allo stato d’animo del momento.

Il terzo giorno abbiamo conosciuto a Bologna la cooperativa Piazza Grande, che lavora nell’ambito dell’emarginazione sociale per sostenere le persone senza fissa dimora. Con il progetto “HOUSING FIRST” ad essere difeso è il diritto all’abitare, alla casa. Si tratta di un servizio del Comune di Bologna gestito da Piazza Grande e coinvolge un’equipe multidisciplinare, che lavora in rete, e 73 persone adulte collocate in appartamenti per lo più in condivisione. Il supporto alla persona da parte dell’equipe è multidirezionale: ci si occupa della salute, della cura di sé, di creare relazioni, di gestione di denaro e di legalità. Ciascun progetto è personalizzato e rivolto al singolo, ma ognuno di quei progetti ha un impatto sociale volto all’integrazione, alla riduzione dello stigma e, non ultimo, alla prevenzione di tutte quelle situazioni che, nel caso di persone senza fissa dimora, produrrebbero alti costi sociali e sanitari.

Al pomeriggio, invece, abbiamo conosciuto Federico e Filippo, fondatori della prima social street italiana, in Via Fondazza a Bologna. La social street altro non è che promozione di buon vicinato, di condivisione, di scambio di competenze, di solidarietà, di uscita dall’individualismo, è condividere bisogni e scambiare soluzioni. In via Fondazza tutto è iniziato con una bacheca per il passaggio di informazioni che in maniera naturale si è trasformata in aiuto reciproco: un’ora di ripetizioni di inglese in cambio lezioni di matematica, la lavatrice in cantina condivisa con il vicino a cui si è rotta, il proprio numero di cellulare lasciato dal calzolaio a disposizione delle persone anziane che vivono da sole, la cassetta degli attrezzi depositata nella bottega sotto casa per ogni evenienza, la bici che non uso lasciata in piazza per chi ne ha bisogno. Tutto rigorosamente a costo zero, basato su ciò che le persone mettono spontaneamente a disposizione, solo sulla base della fiducia reciproca.

Così diventa più semplice risolvere problemi quotidiani di tutti, ma anche migliorare la vivibilità della strada, tenerla pulita, aiutare chi è in difficoltà, organizzare feste e cene che riuniscano gli abitanti di quel luogo. La social street è ciò che erano i piccoli paesi una volta, dove ci si conosceva tutti, ci si salutava e si chiedeva il sale al vicino.

La semplicità di qualcosa che non è affatto scontato oggi, portata avanti da persone come Federico e Filippo mi ha ricordato che dipende davvero da ciascuno di noi cambiare le cose e che, spesso, la soluzione a un problema è tanto semplice quanto vicina, se chiediamo aiuto e la condividiamo con qualcuno. E se quel “ciascuno di noi” si accresce, si possono creare delle connessioni straordinarie capaci di innescare dei cambiamenti profondi.

Fiducia è ciò che mi porto a casa da questi tre giorni speciali: fiducia negli altri, fiducia nel cambiamento, fiducia nella possibilità di poter migliorare un pezzetto del nostro mondo se lo vogliamo e ci crediamo davvero.

Prendo in prestito le parole di qualcun altro per esprimere quella che secondo me è l’essenza di ciò che facciamo noi educatori e tutte le persone come quelle che abbiamo conosciuto in questi tre giorni, siano essi professionisti, volontari o, ancora, individui con uno spirito sociale più florido di altri: “É chiaro che non si tratta affatto di essere bravi e neppure di essere sicuri del risultato. Semplicemente scommettiamo sulla speranza, lavorando perché l’umano, in noi e negli altri, possa risplendere un po’ di più”.

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